Tra gennaio e giugno del 2014 frequentai un corso di alpinismo (A1) presso la sezione del CAI Mirano. Furono mesi incredibili: il mercoledì sera toccava la lezione di teoria e un giorno del fine settimana, il sabato oppure la domenica, si usciva in ambiente per mettere in pratica quanto appreso. Nei giorni dell’escursione raramente la sveglia suonava dopo le cinque del mattino e ricordo bene i visi stanchi e le facce intorpidite dal sonno dei miei compagni d’avventura quando ci si trovava fuori dal casello autostradale.
Quell’anno ricorreva il trentesimo della Scuola di Alpinismo, Scialpinismo e Arrampicata Libera “A. Leonardo” della Sezione, e ogni uscita era buona per ricordarlo. A inizio maggio, per esempio, percorremmo la via ferrata “Brigata degli Alpini” al Col dei Bos, nei pressi del Falzarego. Non è una ferrata particolarmente difficile (l’ho percorsa diverse volte, anche da solo), ma se si pensa che da metà via in su era come fare una scalata invernale per via della neve, le cose si fecero più interessanti e avventurose del previsto.
Oppure quella volta in Val Rosandra, vicino a Trieste, dove per la prima volta nella storia della Scuola i preparatissimi istruttori ci fecero provare l’ebbrezza di una vera via d’arrampicata libera, la Spigolo Verde al Cippo Comici. Sebbene di “solo” IV grado (raggiunto soltanto in alcuni tratti, il resto è del III) e con uno sviluppo verticale di appena centoquaranta metri, a noi allievi sembrava di aver conquistato chissà quale vetta impervia.
E cosa dire allora della salita alla Marmolada per la parete nord? Un’altra uscita unica, l’ultima del corso, resa possibile soltanto da una serie di fortunati eventi: il maltempo che ci fece cambiare destinazione all’ultimo momento e l’eccezionale innevamento di quell’anno, che avrebbe permesso la salita senza le classiche difficoltà del “misto”.
Di uscite memorabili ce ne sarebbero molte altre che meriterebbero le più delicate parole. Ma una su tutte resta impressa nei ricordi, come un fossile nella roccia: la via normale al Sass de Mura. Fu l’unica uscita a durare un intero fine settimana, con pernottamento in tenda e successiva scalata alla vetta. Un classico di fine corso della Scuola. Il Sass de Mura con i suoi 2547 metri è la vetta più alta del gruppo del Cimonega e sorge a cavallo fra Veneto e Trentino. Non è un’altitudine confrontabile con le grandi cime dolomitiche, ma la salita per la Via Normale è di grande soddisfazione e costituisce un’avventura d’alpinismo in vecchio stile.
L’uscita è fissata per il fine settimana del 7-8 giugno che, data la scarsa elevazione e l’esposizione a sud dell’itinerario, è il periodo perfetto per la salita senza soffrire troppo il caldo. Durante la lezione del mercoledì precedente ripassiamo le caratteristiche della via e ci muniamo dell’equipaggiamento necessario. Per l’occasione compro anche tutta l’attrezzatura da campeggio come la tenda, il sacco a pelo e il materassino (che poi è il materiale che tuttora utilizzo). Il venerdì sera inizia la preparazione dello zaino e, con gli altri allievi, c’è un continuo scambio di messaggi su cosa portare e cosa lasciare a casa. Incredibilmente, riesco a farci stare tutto in uno zaino da appena 40 litri, anche se tenda e sacco a pelo li dovrò appendere fuori.
La sveglia del sabato sta volta è a un orario decente, del resto dobbiamo stare via due giorni e non ha senso farci svegliare prima dell’alba. Dopo l’immancabile colazione al bar, la carovana di auto si mette in strada alla volta del Rifugio Fonteghi, quasi alla fine della splendida Val Noana. Il morale è alto, non vediamo l’ora di partire per l’avventura, anche se ci preoccupano un po’ gli zaini pesanti. In effetti appena lo metto in spalla capisco che forse ho portato troppa roba ma ormai non c’è tempo: bisogna iniziare a salire.
Il percorso inizia con una noiosa e pendente strada sterrata che sale a tornanti in mezzo al bosco in direzione di Malga Neva. Arrivati alla malga ne approfittiamo per una breve sosta per riprendere fiato, ma veniamo subito richiamati all’ordine: bisogna proseguire. Superato l’edificio, abbandoniamo il sentiero principale per inerpicarci su un ripido prato, seguendo una impercettibile traccia che, all’epoca, era rappresentata da un flebile segno nero sulla cartina topografica (ora è segnato in rosso come sentiero CAI). La traccia inizia a salire con una pendenza tremenda e presto la quota aumenta visibilmente: la malga di qualche momento prima si confonde ormai nel verde del pascolo, e così incontriamo anche la prima neve.
Superato con non poca fatica quest’ultimo dislivello, ci ritroviamo immersi nell’immenso anfiteatro naturale del Cadin de Neva. A sinistra si ergono alte e immobili le Torri di Neva, mentre a destra appare in tutta la sua magnificenza il Sass de Mura. Lo ammiriamo in religioso silenzio perché è lassù, a quasi cinquecento metri più in alto, che dovremmo essere domani. Sebbene sia giugno inoltrato e in pianura è ormai estate, quassù le cose sono diverse: la neve ricopre tutto il catino, rendendo rari e ristretti i tratti d’erba dove poter piantare le tende. Sono come scogli in un mare bianco. Rivolgo ancora uno sguardo alla nostra meta: sembra proprio impossibile, da quaggiù, poter salirci in vetta.
Ma non c’è tempo per le frivolezze e i pensieri: abbiamo ancora qualche ora di luce prima che la notte scenda nel Cadin. Gli istruttori ci hanno organizzato un bel “percorso avventura”: nella prima stazione si fa ripasso di progressione su neve e ghiaccio con ramponi e piccozza e nella seconda stazione si prova a fare qualche arrampicata di uno-due tiri di corda. Terminata la sessione di allenamento montiamo le tende nei posti più disparati del Cadin, ma per cena ci ritroviamo tutti attorno a quelle degli istruttori. Cuociamo minestre, risotti, pasta; le scatolette di tonno vanno via che è un piacere. Siamo stanchi e affamati, e qualsiasi cosa è buona adesso.
La notte faccio fatica ad addormentarmi e la sveglia suona prestissimo, forse prima delle cinque. Mi sa che non ho dormito granché. Prima di partire, dobbiamo smontare velocemente le tende e nascondere tutto il materiale extra dietro a qualche roccia. Partiamo di buonora, nella semi oscurità, così la neve è ancora solida e abbiamo tutto il tempo per fare la salita senza il pericolo di slavine o scariche di sassi, troppo frequenti in questa stagione.
La risalita del Cadin è dura, resa ancora più faticosa dall’orario, dalla cena e da una notte praticamente insonne. Arriviamo presso la Forcella di Neva che inizia ad albeggiare: da questo punto si riescono a vedere le Pale di San Martino che cominciano a colorarsi di rosa e arancio. Torno a pensare che, dopotutto, amo anche la fotografia, così ne approfitto e scatto qualche foto ma vengo subito interrotto da un istruttore: non siamo un gruppo vacanze, non è tempo di foto. Questo è tempo di alpinismo.
La salita quindi riprende per la banca ovest del Sass de Mura, dapprima su salti di roccia e poi su nevaio sempre più ripido man mano che si sale. La nostra cordata è composta da quattro persone e in certi punti il nevaio mi sembra quasi verticale perché solo la punta del rampone penetra la dura neve. Il tallone, invece, si affaccia nel vuoto dei trecento metri che mi separano dall’amato Cadin de Neva.
Giungiamo ad una stretta cresta estremamente panoramica ed esposta, sulla quale ci fermiamo per un po’ di meritato riposo – incredibile come questo luogo dal basso non fosse visibile e neppure il percorso per arrivarci. Riprendiamo la salita e ora si fa sul serio: bisogna arrampicare, per cui via i ramponi e la piccozza. Che sia il Vibram ad accompagnare i nostri passi! Nulla di troppo problematico per fortuna: si tratta di alcune paretine e camini di una decina di metri di II grado, che superiamo facilmente. Mi diverto molto, la fatica e la paura del nevaio sono sparite per lasciare posto ad una strana euforia. Strana, sì, perché queste “paretine” sono comunque sospese a diverse centinaia di metri sul vuoto verticale del lato sud della montagna. Ma va bene, ci siamo quasi. L’ultima parte della via è sulla cresta che precede la cima. Vedo in lontananza alcuni compagni delle cordate che precedevano la mia che già si scambiano abbracci e strette di mano. Arrivo anche io e mi unisco ai festeggiamenti. Sopra le nostre teste non c’è nulla di più alto, solo cielo.
Il mondo lì sotto continua a fluire, ignaro di questo gruppo di impavidi alpinisti in erba che si sentono parte di qualcosa di più grande.
Non so perché ho raccontato questa storia. Forse perché ho ritrovato una vecchia fotografia, scattata anch’essa nel 2014, ma a novembre: ero salito con Raf e Rino appositamente per il tramonto e un sottile strato di neve aveva coperto i prati attorno a Casera Cimonega, visibile in basso al centro. Alle mie spalle, non inquadrato, svetta l’omonimo gruppo. La mia immaginazione corre lassù, a due vallate di distanza, sulla cima più alta.
In foto: prati innevati a Casera Cimonega. In secondo piano, da sinistra: il Pizzocco e il Monte Trepietre.