17.10.2015
Questa mattina mi sono svegliato di buon ora. E’ da qualche giorno che penso seriamente di salire alla magica Fanes per il fine settimana. Le previsioni meteo, però, non sono favorevoli, così decido all’ultimo minuto di provarci.
Sono diversi anni che cerco di andare in un luogo specifico (e ultimamente – ahimè – troppo frequentato) per poterlo riprendere d’autunno con la prima neve. L’occasione arriva proprio questo sabato, dopo che è transitata una perturbazione sulle Alpi che ha portato la neve anche a quote relativamente basse.
Dopo una veloce colazione, carico lo zaino e il treppiede in auto e mi metto in marcia verso nord, in direzione delle montagne. Una breve sosta all’area di servizio prima di Vittorio Veneto per fare il pieno di GPL e in un paio d’ore sono a Cortina dove compero due panini per il pranzo. L’aria è frizzante, il terreno bagnato e l’odore tipico di una giornata invernale. Aria di neve.
La strada che porta al passo Falzarego, da Cortina, è una delle più belle – assieme a quella per il Giau – dell’intero arco dolomitico. In questa stagione, sopra una certa quota, i larici sono gialli, creando macchie di colore impressioniste tra gli abeti.
Oggi, però, è davvero speciale. La neve appena scesa ha creato un paesaggio straordinario, immensamente bello, impossibile da descrivere con le parole. Mi fermo diverse volte lungo la strada per fotografare ciò che vedo.
Arrivato al passo, salgo fino all’adiacente Valparola e, una volta raggiunta l’Armentarola, mi fermo per una seconda colazione in vista della camminata che mi attende. Un buon strudel caldo e un ottimo cappuccino sono quello che ci vuole per iniziare una bella salita, mentre fuori fa ancora freddo.
Giunto a destinazione, parcheggio l’auto e, tempo di sbrigare alcune faccende, inizio lentamente la salita.
Mi fermo spesso, durante l’ascesa all’altopiano di Fanes, a contemplare la bellezza del luogo, l’eccezionalità delle condizioni, la pace assoluta che si prova nel silenzio ovattato creato dalla soffice neve appena scesa. Dopo poco dall’inizio della camminata, incontro tre escursionisti che scendono e, alcuni minuti più tardi, mi supera di gran lena un ragazzo senza zaino né altre attrezzature – lo reincontrerò un paio d’ore più avanti mentre sta tornando indietro. La salita alla forcella non è particolarmente impegnativa, ma la neve scivolosa rende la camminata più imprevedibile e faticosa.
Non ho fretta, mi godo la splendida natura che mi circonda. Giungo in prossimità del valico principale in poco più di un’ora, superando quindi i primi trecento metri di dislivello. Un Sole benevolo mi accoglie e, anche se nella gola che sto attraversando soffia un venticello per nulla caldo, sono felice di essere qui. L’escursionista che mi ha sorpassato è sparito all’orizzonte e le sue tracce quasi si fanno indistinte nel candore della neve. Procedo lentamente, assaporando ogni passo in questo bianco paradiso. Guado qualche ruscello e torrente, mentre attorno i larici gialli innevati mi guardano passeggiare per il loro regno. In alto, l’azzurro del cielo con qualche striatura di nuvole.
Mi fermo e ascolto il silenzio che mi circonda. E’ una sensazione che quasi dimenticavo come fosse. Vivo in città, dove il silenzio è qualcosa di molto raro – se non impossibile. Ma qui, nella natura quasi incontaminata di Fanes, posso riprovare l’emozione di non udire nessun altro suono (se non il mio respiro) prodotto dall’uomo.
Giungo a destinazione in poco meno di tre ore. L’ultima parte della camminata si svolge su neve vergine. Sono il primo, dopo l’abbondante nevicata, a calpestare il terreno e mi vien voglia quasi di poter volare, per non sporcare un capolavoro così magistralmente pennellato. Cerco di fare passi leggeri, in modo che la mia presenza passi inosservata. Io, unico essere umano oggi, qui, a Gran Fanes. Sicuramente le impronte che lascio saranno le stesse che ricalpesterò durante il rientro.
Nel frattempo, il cielo blu ha lasciato spazio a nuvoloni grigi e il caldo Sole è ormai un ricordo di qualche ora prima. Posiziono il treppiede e attendo. Intorno a me non si vedono più le montagne ed inizia a salire la nebbia. Il freddo e l’umidità aumentano così sono costretto ad indossare un ulteriore strato termico. L’atmosfera, sebbene non corredata da luci epiche o da colori intensi, è straordinaria. Il paesaggio è tutto ovattato e faccio fatica ad udire il cinguettio delle cincie che volano velocissime da un albero ad un altro. La nebbia avanza, prima dal pendio delle montagne verso le anse del Rio de Fanes, poi prosegue la sua corsa in direzione del Col Becei. Fotografo e contemplo il paesaggio per un’ora. Le speranze che si il cielo si apra un po’ per il tramonto sono molto vane per cui decido di rientrare prima, con calma. Prima di mettermi in marcia, esploro un’altra parte del torrente e scatto qualche immagine documentativa.
Mentre mi allontano, inconsapevolmente il mio occhio corre su per il pendio nebbioso della montagna che ho di fronte. Ho un sussulto. Una gioia improvvisa si impadronisce di me, impedendomi quasi di muovermi. Vedo un branco di più di venti camosci correre svelti attraverso rocce e neve. Guardando dal basso, quel punto sembra quasi verticale ma loro sembrano volare. Sono talmente veloci che faccio quasi fatica a rendermi conto del loro passaggio. Uno di loro, in coda al gruppo, si ferma qualche istante e mi fissa. La distanza che ci separa è ragguardevole, saranno almeno 200/300 metri. Assicuratosi che non ho intenzioni maligne né tantomeno di seguirli, si volta e raggiunge il gruppo sparendo nella nebbia.
L’episodio dura pochi intensi secondi. Mi rimetto in cammino con una gioia sincera nel cuore.
Durante la camminata guardo spesso i pendii delle montagne circostanti ma non noto altre presenze. E rifletto sul fatto che questo spettacolo – lo splendido paesaggio prima e i camosci dopo – è soltanto mio. Nessun altro, oltre a me oggi, ha potuto vedere ed assistere ad una natura così squisitamente bella ed elegante. Penso che l’essere soli in un contesto simile sia in qualche modo un grande privilegio. Certamente non disdegno la compagnia di qualche amico o fotografo con cui condividere i bei momenti trascorsi in natura. Ma vi sono situazioni – come quella di oggi – che preferisco assaporare in solitudine, tenere il momento tutto per me. Si crea un rapporto intimo tra me e la natura e davvero alcune volte sento come una grande mano che mi accarezza la testa e mi accompagna attraverso le vallate, i boschi, i torrenti, ghiaioni, rocce, pareti. A contatto con la natura non mi sento in pericolo e ne ho profondo rispetto, soprattutto se si tratta di montagna.
La solitudine non mi spaventa. Sarà che vivo da solo da diverso tempo o perché ho sempre preferito starmene per conto mio piuttosto che buttarmi a capofitto nella mischia della mediocrità. E quelle volte che capita di trovarmi assieme a persone che non condividono le mie stesse passioni o non hanno la sensibilità di percepire come la natura sia così potente ed assolutamente vera, mi sento solo.
Pensiamo che lo stare assieme ad altri ci faccia sentire bene e cerchiamo il più spesso la compagnia di qualcuno. La verità è che molte volte, certamente non la maggior parte di esse, ci circondiamo di finte compagnie pur di non sentire il silenzio assordante dello restare da soli. Ed è allora, in quei momenti, che mi sento come questo larice d’autunno in mezzo ai mughi. D’estate si mimetizza benissimo, il suo colore è di un verde acceso e difficilmente si distingue dalle altre conifere. Quando arriva l’autunno, invece, mostra la sua diversa natura: egli non è un sempreverde, non è come gli altri aghiformi.
Questo larice mi ha fatto comprendere, una volta di più, come sia importante imparare a convivere con la propria solitudine. E, soprattutto, riuscire ad apprezzarla per poi stare meglio con se stessi e con gli altri.
Concentrato in questi pensieri arrivo all’auto senza quasi neanche accorgermene. Mi cambio velocemente e mi rimetto in viaggio per il ritorno. Il telefono cellulare, muto e senza campo fino a quel momento, riprende la sua attività tra vibrazioni e squilli. Strano. Fino ad adesso non mi ero accorto neppure di averlo in tasca.
Alla solitudine si dà spesso un significato negativo. In realtà certe esperienze, come quella che hai descritto tu in questo post, non possono che essere fatte stando in solitudine in mezzo alla Natura. E comunque quando sei in posti così, non puoi sentirti solo perchè quello che ti circonda nutre in profondità. Bellissime foto, trasmettono emozioni. Complimenti.
Ciao Elena, ti ringrazio per il contributo e per il pensiero che condivido.
Grazie,
M.
Gran bell’articolo Marco, spiega benissimo la sensazione di libertà e consapevolezza del proprio essere che regala la solitudine. Ho sempre sostenuto che chi ha paura della solitudine è perché ha paura di se stesso, per non dire quanto detesto chi mi dice “in montagna non si va mai da soli, è pericoloso”… Queste persone certe emozioni non le vivranno mai. Ottime immagini nonostante la luce non ti abbia aiutato.. Sempre un grande!
Ciao Diego, ti ringrazio innanzitutto per le belle parole. Sicuramente l’essere soli in certe situazioni ti fa essere più responsabile e consapevole delle proprie possibilità. Ma penso che sia da sottolineare il fatto che la solitudine, in montagna, è comunque qualcosa da non sottovalutare, soprattutto se si è poco esperti o poco predisposti al rischio.
Grazie,
M.
Splendide sia le fotografie che il testo. Condivido pienamente le tue riflessioni. Un tempo temevo la solitudine, poi ho capito che non era la solitudine che temevo, ma la noia. Star da soli e sentirsi bene è cosa che non tutti capiscono, stare in Natura da soli è davvero come dici tu, una carezza. Grazie Marco per le emozioni che ci regali.
Ciao Cristiana,
Grazie mille per le belle parole e per aver condiviso anche il tuo pensiero.
A presto!
M.
Troppo gentile Silvana, grazie per aver letto l’articolo!
Ciao,
Marco
“Odio coloro che mi tolgono la solitudine senza farmi compagnia” Nietzsche
A presto Marc 😉
André