Spesso mi chiedo, osservando le innumerevoli fotografie che circolano sul web ed in particolare sui social networks, se non si stia perdendo di vista il significato e l’importanza del sentire un’immagine, piuttosto che del cercarla.
Cosa vuol dire, per me, sentire una fotografia? Ebbene, me lo chiedo ogni volta che l’indice preme a fondo il pulsante dell’otturatore. Me lo chiedo ogni volta che rivedo le mie immagini dopo una giornata di scatti. Mi chiedo se sto comunicando qualcosa con questa o quella foto, oppure se sono semplici esercizi di stile, come li ha chiamati qualcuno in passato osservando le mie immagini.
Non posso negarlo. Per mia conformazione e formazione sono sempre stato abbastanza razionale – forse fin troppo, lo ammetto – soprattutto in ambito fotografico, spesso più vincolato alla tecnica che all’emotività di un’immagine. Certamente il genere fotografico del paesaggio porta con se una serie di paletti da cui è difficile slegarsi senza cadere nel banale e nel patetico, con la classica presunzione di produrre arte quando in realtà ciò che viene mostrato è spazzatura.
Slegarsi dalla tecnica nella fotografia di paesaggio è quindi molto rischioso. E’ pur vero che esso è uno dei generi fotografici più difficili con i quali poter comunicare emozioni – e mi riferisco a sensazioni vere quali stupore, meraviglia, inquietudine, pace, serenità, cupezza, tristezza e così via.
Infatti, a volte è più semplice mostrare il carattere documentaristico e scientifico della fotografia di paesaggio, limitandosi a registrare, in un atteggiamento quasi passivo, ciò che osserviamo. Ma in ogni inquadratura, in ogni istante di tempo, lo sguardo di qualcuno è diverso da quello di qualcun altro. Non credo, in buona sostanza, che si possa parlare di fotografia “oggettiva” in senso stretto e tanto più ritengo sia riduttivo minimizzare un’immagine come riproduzione fedele di un luogo o di una situazione.
Ognuno di noi che si cimenti con un certo impegno con la fotografia, di una stessa scena ne ha una visione parzialmente diversa – se non completamente differente in alcuni casi – l’uno dall’altro. Tuttavia non sono in grado di comprendere cosa scateni in certi individui la replicazione praticamente perfetta di un’immagine già ideata da qualcun altro. E’ un tentativo di imitazione a fini creativi (quasi tutti i più grandi artisti hanno iniziato le loro carriere imitando i grandi maestri fino a sviluppare un loro stile e linguaggio) oppure si tratta effettivamente di una mancanza di creatività?
Sono domande che mi pongo, senza puntare il dito contro alcuno. Anzi, mi ci metto dentro anch’io. Credo però che, così come per le altre arti, anche la fotografia sia soggetta alle emozioni e sensazioni dell’autore nel momento dello scatto. Ci sono stati momenti in cui, preso ed immerso in altri pensieri, non riuscivo a creare qualcosa di mio e la via più facile era cadere nell’imitazione, perdendo così personalità. Ne risultavano immagini piatte, immobili, asettiche, perfettamente estranee che nella loro seppur perfetta tecnica mancavano dell’ingrediente fondamentale alla base dell’arte fotografica: l’emotività.
Durante una delle ultime serate alla quale ho avuto l’onore di essere ospite, una persona dal pubblico mi ha rivolto una domanda molto interessante nella sua semplicità, senz’altro spunto di riflessioni anche future. La domanda era questa: “cosa provi quando scatti una fotografia di paesaggio? E le emozioni che provi adesso sono le stesse che hai provato in passato?”. Non è semplice rispondere in modo netto e conciso ad una questione simile. Tuttavia posso dire che le emozioni che mi accompagnano quando fotografo un paesaggio sono sempre diverse, in base al mio stato d’animo in quel momento, alla bellezza del luogo (vi sono posti che mi sono più congeniali di altri), alle condizioni del meteo e, più in generale dall’atmosfera, che si viene a creare. Inoltre, le sensazioni che provo adesso sono diverse da quelle dell’anno scorso, così come sono diverse da quelle dell’anno prima ancora e così via. Anzi, a dirla tutta, ultimamente concentro molto l’attenzione sulle emozioni e sulle idee dietro ad una fotografia piuttosto che alla fotografia stessa. E’ come se l’immagine finale fosse il risultato di un processo creativo o, più semplicemente, emozionale nella quale confluisce tutto il mio stato d’animo al momento dello scatto.
Poi però accadono eventi totalmente imprevisti, situazioni inaspettate, condizioni temporanee ed estremamente effimere, idee fulminee, che impongono di agire istantaneamente, senza alcuna pianificazione né meditazione particolare. E’ un guizzo, un’intuizione, un lampo accecante. Ma è proprio questa azione istantanea, spontanea, che mi permette di entrare in empatia con la scena che sto fotografando ed ottenere immagini che sono soltanto mie. Perché in quel momento non sto osservando un paesaggio con gli occhi degli altri fotografi prima di me. No. In quel momento sono totalmente rapito da cosa mi sta accadendo attorno, in totale contemplazione dell’ambiente. E’ come se io facessi parte di esso. Un tutt’uno con le rocce, gli alberi, l’acqua.
Durante questi momenti non c’è filtro tra il cuore e la mente, nessuna barriera, nessuna “traduzione” dell’emozione in immagine. Avviene tutto automaticamente. L’intero universo sensoriale viene a concentrarsi sul dito indice che preme, quasi inconsciamente, il pulsante dell’otturatore. La mente si mette a disposizione del cuore, poiché è con le sue conoscenze razionali che la fotografia ha la possibilità di venire alla luce. Il cervello comanda la mano, indicandole i settaggi da impostare sulla macchina fotografica. E’ una collaborazione costruttiva, inconscia, come dovrebbe essere anche nella vita di tutti i giorni.
Nascono così immagini preziose. Perché non fanno parte di una visione comune, ma sono fedeli riproduzioni delle mie più intime sensazioni. Nascono fotografie “sentite”, non “studiate”. Nascono le mie fotografie.
Il Colbricon spunta dalla nebbia al tramonto | Luglio 2016.