Recentemente mi è capitato di vedere diverse mostre fotografiche, sia legate a concorsi più o meno importanti, sia esposizioni personali in location abbastanza blasonate – non certamente il MoMa di New York ma nemmeno il capannone della “Sagra dea Sbrisa”. Insomma: eventi che, sulla carta, sembravano avere le carte in regola per meritarsi l’appellativo di “mostra”.
Come dice il mio amico Raffaele, partiamo dal seguente presupposto: quando una persona decide di esporre le proprie immagini (sia fisicamente in una sala che virtualmente su un sito web o un social) implicitamente mi sta chiedendo un po’ del mio tempo che io dovrei “investire” per guardare una o più fotografie.
Il secondo presupposto, abbastanza ovvio ma ci tengo ad evidenziarlo, è che il mio tempo non è infinito e quindi posso, a mio insindacabile giudizio, rivolgere la mia attenzione altrove. Se dunque decido di impiegare del tempo ad osservare delle fotografie mi augurerei quantomeno che valgano il tempo che sto spendendo.
La scelta se guardare o meno certe foto, se applicata alle immagini sul web, non è particolarmente difficile: è sufficiente non aprire alcuni siti oppure basta scorrere velocemente le immagini sui vari social senza soffermarsi troppo – quindi, amici, non offendetevi se non metto un like a tutte le vostre foto, forse alcune di esse mi fanno veramente schifo.
Le cose però cambiano radicalmente quando si tratta di fare da spettatore ad una mostra fotografica. Perché se è vero che davanti ad un computer il rischio di soffermarsi a guardare fotografie pessime è ridotto, quando si è in una stanza riempita con delle immagini, è pressoché impossibile non guardare – a meno di non tapparsi gli occhi e rischiare di sbattere contro il muro, magari schiantando addosso ad una delle suddette immagini.
Andando al di là della pura estetica e non soffermandomi neppure sulla tecnica (entrambi argomenti interessantissimi ma molto opinabili), quando sono davanti ad un immagine mi capita spesso di chiedermi “cosa vuole dirmi questo fotografo?”. Questa domanda me la pongo spesso, soprattutto in presenza di un’esposizione “fisica”. Del resto penso che se l’artista di turno ha deciso che quella tal fotografia debba far parte della tal mostra, un motivo ci deve pur essere. Pertanto mi sforzo nel cercare di cogliere il messaggio, l’emozione, il guizzo, quel punctum che, nella mia indiscussa ignoranza, dovrebbe fungere da filo conduttore di tutta la mostra (o parte di essa).
E invece no. In molti casi non c’è niente di tutto questo. Quando va bene – e bisogna essere davvero fortunati nel vedere una mostra di questo tipo – c’è almeno un tema comune, una sorta di argomento che lega gran parte delle immagini.
Ma la maggior parte delle volte, invece, mi ritrovo davanti a fotografie per le quali non riesco ad individuare neppure un barlume di una ricerca artistica. Sì: trovarci l’emozione è un’aspettativa che, ammetto, ho abbandonato tempo fa, ma se non altro mi aspetto quantomeno di capire qual è il minimo comun denominatore delle foto.
Non sono un critico d’arte, quindi questo mio pensiero resta di fatto una considerazione del tutto personale che, come tutti i pensieri, potrà evolvere in futuro. Può darsi che una maggiore cultura e conoscenza dell’arte fotografica mi portino a riconsiderare valide quelle mostre fotografiche (e di conseguenza quelle fotografie) che oggi mi paiono così… insipide. C’è anche la possibilità che queste mie idee cambino a tal punto da evolvere in qualcosa di più complesso, come una sorta di saggio sulla fotografia come mezzo espressivo – l’ennesimo scritto sull’argomento.
In ogni caso concludo affermando che sebbene nella maggior parte dei casi non sia possibile sapere in anticipo cosa ci attende tra le sale di una mostra fotografica, a mio avviso vale sempre la pena investire del tempo per osservare anche la più orribile delle immagini. Perché ci può far capire quale può essere la direzione da prendere in ambito fotografico. Che poi il dilemma è sempre quello: fotografo per me o per gli altri?
In foto: Vette Feltrine, aprile 2017