Riguardando le vecchie cartelle sul computer, entro per un attimo in quella denominata ‘20170516’.
Quel giorno ci svegliammo comodi in una stanza di un B&B prenotato qualche giorno prima. Arrivavamo da tre giorni durante i quali l’auto è stata la nostra casa. I sedili reclinati il nostro letto. Le nostre cene erano a base di zuppe scaldate con un fornello da campeggio nei posti più impensabili per ripararci dal vento. Un vento che ricordo bene ancora oggi. Teso, freddo, urlante tra le scogliere sull’Atlantico. Un ambiente magnifico, che sembrava essere stato disegnato da un abile pittore e poi costruito su misura. E invece l’isola di Harris esiste veramente ed è più Natura che mai.
Io sono un amante delle terre alte, delle austere pareti di Dolomia che s’innalzano strapiombanti sui pascoli verdeggianti. Ma l’atmosfera che si respirava ad Harris, in una sera di metà maggio, è senz’altro una sensazione che risulta difficile da provare sulle nostre montagne.
Il vento forte rendeva difficoltoso ogni movimento. Persino aprire le gambe del treppiede risultava essere un’operazione complicata. Il suono costante dell’oceano, il roboante muoversi delle onde sotto gli scogli, gli spruzzi d’acqua salmastra che, all’improvviso, scavalcavano le scogliere e ci bagnavano un po’. La luce ambrata della sera che si affievoliva minuto dopo minuto. E l’azzurro intenso dell’acqua, come in un mare caraibico. Laggiù in fondo, a nord, le alte colline al confine con Lewis. Ad ovest, il mare all’infinito. Tutto sembrava essere perfetto così com’era.
Ci sono istanti che vorresti non finissero mai. Ma che forse, proprio perché finiscono, sono i più preziosi.
Harris, Ebridi Esterne
Scozia 16 maggio 2017