Ricordo bene quel giorno alle porte del Grande Nord. Era il 2 agosto 2014 e avevo trascorso la giornata nella parte settentrionale dell’isola di Eysturoy, la terza per dimensioni dell’arcipelago delle Faroe.
La sera precedente me ne stavo appollaiato sul ciglio della scogliera nei pressi del villaggio di Gjógv. Quella sera ci fu un tramonto piuttosto memorabile. Il cielo, dapprima di un blu acceso, aveva presto assunto dei colori che spaziavano tutte le tonalità del rosso e dell’arancio, dal rosa pallido al viola intenso. Un tripudio di tinte che dipingevano una scena quasi impossibile, ora, da descrivere con le parole.
In alto: fuoco in cielo. Sotto: dall’alto della scogliera
Terminato lo spettacolo del tramonto, durante la discesa verso il villaggio, mi accorsi di alcuni piccoli volatili che, goffi, decollavano e atterravano sul bordo della scogliera a 400 metri (nella parte più alta) a picco sul mare. Erano le pulcinelle di mare, i puffin, che volteggiavano come forsennati in cerca di cibo.
Un puffin poco prima di spiccare il volo nella penombra della sera
Per quella sera avevo preso una camera nell’unico alloggio del villaggio, anche per via delle previsioni meteo avverse per la notte. Andai a dormire soddisfatto e non fu facile addormentarsi per via dell’adrenalina che faticava ad andarsene.
Il giorno successivo era quello decisivo, che valeva tutto il viaggio fatto fino ad allora. Infatti, già prima di mettermi in viaggio verso l’Atlantico, fantasticavo su quanto magico dovesse essere poter vivere e riprendere il tramonto sulla cima più alta delle Faroe, lo Slættaratindur. Detto, fatto.
Dopo giorni di pioggia e visibilità pressoché nulla, il momento era giunto: la sera del 2 di agosto. Le previsioni meteo davano ottima visibilità lungo tutte le isole, in pratica la giornata migliore delle ultime settimane. Trascorsi la mattinata perdendomi tra profonde vallate e stradine monocorsia, alla ricerca di qualcosa che in realtà avrei trovato soltanto dopo diverse ore. Dopo pranzo decisi di fare un giro di perlustrazione, ossia salire verso la cima per capire la fattibilità della mia idea e rendermi conto di cosa avrebbe potuto accadere e se vi fossero stati dei rischi, poi, per il rientro nell’oscurità.
Parcheggiai sul passo di Eiðisskarð e mi misi in cammino sul sentiero verso la montagna. Da un rapido calcolo e secondo la mia esperienza di montagna, avrei dovuto coprire il dislivello (di circa 500 m) in poco meno di un’ora, dando per scontato che il sentiero fosse ben tracciato e visibile. Ovviamente ben presto mi resi conto che così non era. Dopo i primi metri iniziali in falso piano in cui si procedeva abbastanza agevolmente, mi fu chiaro il perché molte guide e opuscoli sconsigliassero di effettuare la salita con cattivo tempo e nebbia: nessun segno di sentiero o di una minima traccia da seguire. Per capire quale fosse la direzione corretta bisognava osservare attentamente il terreno: il percorso da seguire era costituito da una striscia di erba leggermente più schiacciata e bassa rispetto alle altre zone. C’è da dire che anche in assenza di sentiero non è poi così complicato: è sufficiente puntare diritti verso la cima e salire sulla linea di massima pendenza senza mezzi termini. In effetti durante la mia salita incontrai diverse persone che, scendendo, percorrevano il fianco della montagna in ogni direzione.
Tuttavia io, essendo da solo, cercai di attenermi il più possibile alla traccia “fantasma”. Dunque, dopo il primo tratto in piano, il percorso inizia a salire deciso tant’è che, in alcuni punti, mi dovetti aiutare con mani per non scivolare – colpa anche dell’erba quasi perennemente bagnata e umida. Il tratto con pendenza considerevole, pur essendo faticoso, permette di recuperare velocemente gran parte del dislivello e guadagnare quota in fretta. Superata questa rampa iniziale (circa 30 minuti dalla partenza) la traccia devia verso sinistra ed inizia a salire più dolcemente di traverso per tutta la montagna. A questo punto l’impercettibile via si trasforma magicamente in un sentiero ben visibile e la cima si fa sempre più vicina. Nonostante la giornata soleggiata, ma mano che proseguivo, sembrava che la vetta fosse nascosta da nuvole basse – la montagna è uguale dappertutto, pensai, anche qui il tempo cambia in men che non si dica. Le speranze per un buon tramonto stavano iniziando a svanire.
Il tratto di traverso che conduce alla cima, in alto a destra.
Quasi al termine del traverso, incrociai un signore inglese con il quale scambiai qualche battuta. Mi disse che ogni anno, da più di dieci anni, veniva in vacanza alle Isole Faroe e non passava anno che non salisse almeno una volta sulla cima dello Slættaratindur per godersi della meraviglia del mondo da lassù. Gli dissi che ero un appassionato di fotografia e che la mia intenzione era di ritornare la sera stessa per il tramonto. “Allora preparati ad assistere ad uno spettacolo incredibile”, mi rispose. “Oggi è una grande giornata, una visibilità che non si verificava da giorni. Sarà memorabile”, aggiunse.
Cercai un po’ di coraggio nelle parole dell’inglese, fiducioso del fatto che sicuramente in tutti questi anni doveva aver accumulato abbastanza esperienza su questa zona. Con questi pensieri arrivai in poco tempo ad un’altra importante deviazione del sentiero dove, terminato il traverso, iniziava l’ultima salita di circa 50 metri verso la vetta. Ricordo che il vento si faceva via via più intenso man mano che il dislivello diminuiva. 40 metri, 30, 20… Credo che una delle sensazioni più belle dell’andare in montagna siano gli ultimi 5 metri prima di calpestare la sommità di una cima. In questo frangente, lo sguardo cerca di vedere la fine del pendio e quando si accorge che oltre non vi è più terra ma soltanto cielo, si capisce che oramai la vetta è a pochi passi. E infatti… 3 metri, 2… 1…lacrime.
Arrivai in vetta verso le 17. Essa è una grande “piazza” pressoché piatta ed in effetti la traduzione del suo nome, Slættaratindur, è proprio “cima piatta”. La visuale spaziava a 360 gradi. La sommità era di pochissimo al di sotto delle nuvole e vi erano dei giochi di luce che mai avevo visto in vita mia. In basso, il resto del mondo sembrava così distante, sia per via del dislivello sia per la differenza di luminosità e pure di temperatura. Presto mi dovetti sedere perché quasi mi tremavano le gambe e non per lo sforzo. Ricordo che mi sarebbe piaciuto avere una foto di me sul quella cima ma non avevo il cavalletto. Poco distanti da me due ragazzi ammiravano il panorama seduti sul bordo della cima con i piedi quasi a penzoloni nel vuoto. Chiesi loro se mi potevano scattare una fotografia con il telefono cellulare e iniziammo a parlare. Uno di loro, danese, era la prima volta che visitava la Faroe e l’altro, autoctono, era la prima volta che saliva sullo Slættaratindur. Gli chiesi se per caso fosse matto e gli dissi che io ero partito dall’Italia proprio con l’idea di andare lassù. Dopo qualche battuta ci congedammo e iniziai la discesa – avrei dovuto risalire per le 19.
Da cellulare. In alto: panoramica con due ragazzi in contemplazione sulla destra (click per visione intera); in basso: io, foto scattata da uno dei due ragazzi. Sullo sfondo l’isola di Kalsoy
In meno di 40 minuti ero di nuovo all’auto e passai l’ora successiva al villaggio di Eiði dove feci una piccola spesa al supermarket locale e mandai qualche messaggio ad amici e parenti, approfittando anche della linea telefonica (da non dare per scontata in quella parte dell’isola). Alle 19, come da programma, nella luce dorata della sera, mi incamminai per la seconda volta verso la vetta, questa volta “armato fino ai denti”. Il peso del treppiede e del resto dell’attrezzatura si faceva sentire ma quel paesaggio e l’idea di trascorrere il tramonto da lassù mi facevano procedere di buona lena.
Ormai conoscevo il percorso e mi presi anche la libertà di accorciare l’ultimo tratto percorrendo quella che battezzai “la via normale al Slættaratindur” per via del fatto che non vi era sentiero e che in un paio di punti c’era da arrampicare – nulla di pericoloso, in ogni caso, anche se come sempre è necessaria prudenza e passo sicuro.
Una volta in vetta non avevo grosso tempo da spendere per la contemplazione. Piazzai il treppiede e lanciai un time-lapse mentre mi gustavo un meritatissimo panino comprato un’ora prima al market. Al momento del mio arrivo non c’era nessun altro quindi in un certo senso gioii per avere la fortuna di vivere tale momento da solo.
Ovviamente, sul più bello, due persone fecero capolino in cima. Si trattava di due ragazze e anch’esse iniziarono a contemplare meravigliate lo spettacolo che stava avvenendo. Mi chiesero di farle alcune foto ricordo. Iniziammo presto a fare amicizia: una di esse, americana, era alle Faroe per una tesi sugli usi e costumi della popolazione locale. Disse che veniva spesso sulla “cima piatta” e che avrebbe avuto molta difficoltà a tornare negli USA dopo gli spettacoli naturali che aveva avuto modo di ammirare su queste isole. L’altra ragazza, austriaca, era un’amica. Si erano conosciute qualche tempo prima in una città d’Europa (che non ricordo) e l’austriaca, ormai, era al termine della vacanza. Sarebbe partita il giorno seguente. Iniziammo a parlare del più e del meno, della bellezza delle Faroe, del tramonto, delle montagne, dei nostri paesi d’origine, di fotografia – soprattutto con l’americana, appassionata anch’essa. Raccontai loro della sera precedente, del tramonto infuocato e dei puffin e mostrai loro qualche immagine dal display del telefono. Parlammo un po’, a volte non mi venivano le parole in inglese, in altre, invece, l’attenzione di tutti veniva catturata da un particolare gioco di luce.
Un italiano, un’americana e un’austriaca sulla vetta più alta delle Faroe mentre la luce del tramonto iniziava a colorare di arancio le montagne attorno. Tutto ciò aveva qualcosa di magico e di incredibile.
Da cellulare. L’americana e l’austriaca sulla cima poco prima del tramonto.
Pochi minuti dopo ci salutammo. Le ragazze iniziarono la loro discesa nella luce della sera e pensai che si stavano perdendo la parte migliore. Forse meglio così. Quella sera, da lassù, lo spettacolo era solo per me – non è questione di egoismo, ma di una sensazione di intimità con la Natura. Seguii con lo sguardo, fin dove potei, la loro discesa finché divennero piccole come puntini tra l’erba e le rocce e scomparvero.
E finalmente arrivò il momento tanto atteso. Il Sole scese al di sotto del limite inferiore delle nuvole, illuminando con la sua luce d’oro tutta la sommità. Lo Slættaratindur sembrava brillare di luce propria e le rocce assunsero per pochissimi minuti un colore arancio acceso. La parte delle nuvole colpite dal Sole si colorava di arancio con tinte di rosa e le brulle vallate, che fino a poco tempo prima erano di un verde intenso, ora anch’esse assumevano il colore dell’oro.
In alto: veduta al tramonto verso sud-est; nel mezzo: veduta a nord-ovest; in basso: panoramica (click per visione intera).
Scattai più foto che potei, percorrendo in lungo e in largo tutta la cima, in ogni direzione. Mi sembrava di essere un bambino in un parco di divertimenti.
Ma, come ahimè spesso accade quando si trascorre del tempo di qualità, lo spettacolo finì presto e quasi tutto d’un tratto. Nello spazio di pochissimi minuti la luce dorata lasciò spazio all’ombra, i caldi colori delle rocce tornarono ad essere freddi e spenti e, appena il Sole sparì sotto l’orizzonte, si alzò un forte e fastidioso vento freddo. Pensai che la Natura mi stesse suggerendo che era giunto il momento di rientrare, che avessi finalmente avuto ciò per cui ero venuto fin lì.
Okay, pensai.
Quaranta minuti più tardi, infreddolito, ero in auto col riscaldamento acceso e la ventola al massimo. Con il cuore ancora colmo delle emozioni vissute quel giorno, mi misi in viaggio verso… Mi accorsi che non avevo alcuna destinazione! Decisi per un campeggio “selvaggio”, che più che campeggio si sarebbe trattato di un bivacco. Tuttavia il vento era troppo forte per poter piantare la tenda, anche per il fatto che la mia non è particolarmente tecnica e adatta in situazioni simili. Pensai però che un buon posto per dormire fosse su un promontorio che avevo visto il giorno precedente, sulla strada che porta all’abitato di Elduvík.
Passai la notte in auto, dentro al sacco a pelo con diversi strati di vestiti addosso mentre le forti raffiche di vento facevano oscillare la mia “dimora” e fischiavano tra le alte scogliere attorno. Lì, accanto a me, la macchina fotografica con le immagini di un epico tramonto. E fra poche ore ci sarà l’alba… ma questa è un’altra storia.
L’alba del giorno successivo dopo la notte trascorsa in automobile (click per visione intera).