Parcheggiamo l’auto che è buio da un pezzo. La leggendaria luce del Grande Nord ha lasciato queste terre da un paio d’ore, da quando io e Gaetano abbiamo contemplato lo spegnersi del giorno dall’alto di una scogliera nella parte settentrionale dell’isola.
Infreddoliti e affamati, abbiamo guidato verso nord per una decina di chilometri fino a raggiungere un piccolo paese all’estremità settentrionale del fiordo. Dopo un lungo girovagare per le vie dai nomi per noi impronunciabili, ci siamo fermati in un piazzale deserto, contornato da edifici bassi e squadrati. Uno di questi deve essere per forza una scuola: la parete che dà sul parcheggio è costituita interamente da una serie di grandi finestre, una accanto all’altra, con dei fogli attaccati, probabilmente disegni. Del resto, la strada si chiama Barnaskóli, scuola per bambini, in islandese. Di fronte alla scuola si trova un altro edificio più piccolo la cui parete esterna è dipinta con un murales che raffigura un peschereccio in balia delle turbinose acque dell’Atlantico. Dall’altro lato della strada, a chiudere il piazzale, c’è uno stabile grigio e anonimo che può essere scambiato per una banca ma è un hotel.
Sono le sette di sera e in giro non c’è anima viva. Solo la luce che proviene da qualche finestra dell’albergo ci fa capire che non ci troviamo in un paese fantasma. L’aria è fredda, solo di pochi gradi sopra lo zero, e di tanto in tanto arriva una folata di vento che ha il sapore del sale e proviene dall’oceano del Nord.
Cerchiamo un posto al riparo dal vento dove posare il fornello da campeggio: dobbiamo scaldare un po’ d’acqua e cuocervi del cous cous e una zuppa al farro. È il secondo giorno di viaggio e abbiamo le valigie ancora piene di buste di cibo liofilizzato. Le abbiamo portate dall’Italia perché al momento della partenza non eravamo sicuri che le vendessero anche qui, ma ovviamente ci sono.
Accendo il fornello: un paio di scatti e in pochi secondi una rassicurante fiamma azzurra divampa sopra la piccola bombola di propano. Rumore di fuoco, odore di cibo caldo. Il vento però continua a soffiare e, incurante della barriera formata dall’automobile, a momenti spegne la speranzosa fiamma. Metto le mani attorno al fuoco, cercando di ripararlo ulteriormente dall’aria atlantica. In breve mi raggiunge anche Gaetano, così entrambi ci mettiamo accovacciati attorno al fuoco, come se fossimo in mezzo a un bosco e avessimo acceso un focolare per bivaccare la notte.
In quel momento due bambine attraversano il parcheggio a cavallo di un monopattino elettrico. Probabilmente sorelle, sono entrambe bionde e una delle due è più grande di qualche anno dell’altra, ma comunque non deve avere più di dodici anni. Ci passano a fianco guardando i due stranieri con aria perplessa e in poco tempo spariscono dall’altra parte del piazzale.
Nel frattempo l’acqua ha raggiunto il punto di ebollizione, così la verso nella pentola dove c’è il cous cous disidratato. La prima parte della cena è pronta. Per non perdere troppo tempo, riempio nuovamente il pentolino, riaccendo il fuoco, ci verso la zuppa in polvere e mi trasferisco nell’auto. Finito il primo piatto, tocca alla zuppa. È talmente calda che in breve tempo tutti i finestrini della macchina si appannano. Mangiamo quasi senza parlare e perfino questo cibo dal gusto artificiale sembra buono, ma forse solo perché è caldo. Un rumore improvviso ci desta dai pensieri. Nel piazzale è arrivata un’altra auto: è un fuoristrada e parcheggia poco distante da noi. Inizialmente pensiamo che si tratti di un abitante del paese venuto a controllare cosa stessimo facendo in mezzo a un parcheggio con un fornello. Invece l’uomo, sulla cinquantina, lancia un’occhiata distratta alla nostra auto e si dirige con passo veloce verso l’edificio con il murales. Trascorre qualche minuto e nel piazzale arriva un altro fuoristrada. Anche in questo caso il conducente, della stessa età del primo, entra nello stesso edificio. Altro rumore, altro fuoristrada. E un altro, e un altro ancora. In meno di cinque minuti il piazzale è pieno di automobili parcheggiate di fronte allo stabile con il murales.
Incuriositi e perplessi scendiamo dall’auto e iniziamo a preparare il tè che ci sarà di grande aiuto in previsione della lunga notte artica. Riempiamo la pentola con l’acqua e riaccendiamo il fornello. Il vento è costante, per cui ci ritroviamo nuovamente accovacciati attorno al focolare per proteggerlo dall’aria fredda che imperversa da ogni direzione. In lontananza avvertiamo delle voci indistinte che si avvicinano: dal fondo del piazzale le due bambine sul monopattino riemergono dall’oscurità e attraversano il parcheggio venendo nella nostra direzione. Ci voltiamo per vedere se alle nostre spalle c’è un gruppo di amici che le aspetta. Non c’è anima viva, solo grigi e anonimi edifici. No, le bambine vengono proprio da noi. Si fermano a un paio di metri di distanza e ci fissano per un po’ dall’alto del loro monopattino, senza dire una parola – temo tuttavia che, anche se parlassero, noi non capiremmo nulla. Dopo qualche istante che non saprei quantificare, la più grande scende dal mezzo e, sorridendo, ci porge due piccole confezioni di qualcosa che potrebbe essere cioccolato o caramelle. La più piccola resta ferma a osservare la scena e abbozza un timido sorriso. Lì per lì non so se accettare o meno, non capisco il motivo di quel gesto né posso intuire il contenuto dei pacchetti visto il buio che ci circonda. Mi volto verso Gaetano e vedo che lui ha già accettato e sta ringraziando la bambina più grande. Faccio lo stesso anche io, cercando di farmi capire con un po’ di inglese e qualche gesto. La bambina sorride ancora, sta volta in un modo un po’ più convinto, e ci dice qualcosa. Si volta verso l’altra bimba più piccola, risale sul monopattino e parlano tra di loro. Noi ringraziamo ancora e loro, ridendo, ci salutano e spariscono nell’oscurità del nord da dov’erano venute.
L’episodio ci ha messo di buon umore. Riprendiamo l’uso della parola per commentare quanto accaduto. Ci accorgiamo che non sappiamo ancora cosa ci sia dentro questi pacchetti. Decidiamo di aprirne una: è cioccolata ripiena di una specie di marmellata di frutta. Squisita. Il gesto delle due bambine ci ha riempito il cuore, è qualcosa a cui noi non siamo abituati. Spesso si pensa, erroneamente, che i popoli del nord siano chiusi e diffidenti. Al contrario, forse siamo noi a esserlo.
Nel frattempo l’acqua ha iniziato a bollire quindi la spegniamo e mettiamo il tè in infusione. Il regalo delle bambine ci ha distratti da quanto sta accadendo all’edificio con il murales: le finestre, che prima erano grigie e scure, ora sono tutte illuminate e dall’interno proviene un gran vociare. Improvvisamente le voci smettono e per un istante cala il silenzio. Stiamo per rimetterci in auto quando i nostri sensi vengono invasi da un suono melodico: musica. Avvicinandoci alle finestre scopriamo che l’edificio con il murales deve essere la sede di una qualche associazione paesana: da un lato, su una specie di cattedra, c’è l’insegnante o la direttrice dell’orchestra e dall’altro lato tutte le altre persone che, chi con uno strumento chi con la sola voce, seguono le sue indicazioni.
Sulle note di una canzone mai udita prima, volgiamo inconsapevolmente lo sguardo verso nord. Sopra il paese, oltre il giallo dei lampioni alogeni del piazzale, una velatura percorre il cielo stellato. Ormai lo sappiamo di cosa si tratta, e di certo non è una nuvola. Riponiamo alla svelta fornello e pentole in auto e riprendiamo la strada, sta volta verso sud, costeggiando il fiordo. Dopo una breve sosta appena fuori del paese decidiamo di tornare sulla scogliera da dove, qualche ora prima, abbiamo assistito al calar del sole. Da quel punto, infatti, la veduta verso nord non ha eguali e dovremmo aver la visuale libera anche da eventuali luci artificiali.
Parcheggiamo in fretta l’auto su una laterale sterrata e con le torce cerchiamo il passaggio per la scogliera. Non fatichiamo a trovarlo e in men che non si dica siamo sulle rocce che avevamo già conosciuto. Giusto il tempo di alzare gli occhi al cielo e in men che non si dica tutto si tinge di verde. Anche l’oceano riflette l’intenso colore delle luci del nord, che partono da nord ovest e, basse sull’orizzonte, arrivano a nord est fin dietro le montagne. L’aurora boreale disegna come un arco nel cielo notturno; essa tinge di verde anche i versanti delle montagne rivolti verso il mare e, più in alto, splendono innumerevoli stelle. Restiamo assorti in uno spettacolo che sembra senza fine. Di tanto in tanto scatto una fotografia, ben consapevole che nessuna immagine potrà mai sostituire il ricordo di questi momenti. Nel cielo qualche meteora sfreccia veloce, mentre l’aurora boreale danza all’orizzonte.
Trascorre così qualche ora finché le luci del nord decidono di interrompere la loro danza celeste. Attendiamo qualche minuto per vedere se la natura ci vuole concedere il bis. Fortunatamente così non è: abbiamo assistito a una magia che ha lasciato un’emozione indelebile nel nostro cuore e anche se l’aurora decidesse di tornare non sarebbe la stessa cosa. Cogliamo l’occasione e rientriamo all’auto, quasi al limite dell’ipotermia. Dobbiamo decidere dove passare la notte, qui non possiamo stare, per cui decidiamo di dirigerci verso un centro abitato più a sud. Perlustriamo varie zone, finché troviamo il posto ideale di fronte a un piccolo palaghiaccio. Mi infilo nel sacco a pelo e chiudo gli occhi. Ma sono ancora lì sulla scogliera, sotto un cielo stellato mentre le luci del nord illuminano questa fredda notte artica.
Dati di scatto: DSRL, 16-35mm @21mm, f/4.5, 15 s, ISO 1600, treppiede.