“Dai, punta bene il piede e tirati su!”, dissi rivolto a Francesca.
“Ma qui è troppo ripido! Rischio di scivolare, non ho neanche i ramponi!”, rispose.
Avevamo perso di vista il sentiero e stavamo procedendo a tentoni per portarci su una cengia un po’ più semplice da percorrere. Da lì speravamo di poter avere una veduta migliore della traccia che, sulla cartina, doveva percorrere lateralmente il ghiaione e sbucare poco sotto la cima del Monte Agnello.
Era il giorno di Santo Stefano del 2014 e Francesca voleva mostrarmi la vista dal Pelenzana, il monte proprio sopra Predazzo.
Partimmo a metà mattinata verso il rifugio Passo Feudo a quota 2175 metri, prendendo gli impianti di risalita stipati di sciatori. Da lassù la vista era magnifica e si estendeva, a ovest, verso l’Alpe di Pampeago e, più distante, i pascoli di Obereggen. In basso, a est, si sviluppava tutta la Val di Fiemme e la Val di Fassa. A nord del passo dominava la cima che gli dava il nome, Cima Feudo, una delle tante crode che formano il gruppo del Latemar. A sud, invece, si ergeva il Monte Agnello che avremmo dovuto salire per raggiungere la nostra destinazione. Sulla carta il nostro itinerario sembrava piuttosto semplice: percorsa una mulattiera verso sud, la strada sarebbe diventata presto un sentiero che, risalito trasversalmente un ghiaione, ci avrebbe condotti in cima all’Agnello. Dalla vetta, a quota 2358 metri, saremmo dovuti scendere, sempre verso sud, fino ad arrivare alla croce del Pelenzana. Il rientro sarebbe avvenuto sul pendio nord est del monte dove dapprima un sentiero e poi una strada ci avrebbero riportati alla civiltà. Niente di più facile.
Tuttavia era inverno e solitamente in questa stagione i sentieri sulla cartina non sono quasi mai percorribili. È necessario affidarsi a tracce già approntate da qualche escursionista, sempre se ne siano passati. Quel giorno sembra non passò nessuno oppure il vento doveva aver alzato quella poca neve caduta e cancellato le candide tracce.
C’era però da stare allegri: dal Passo del Feudo fino al ghiaione, il percorso era più agevole del previsto e il panorama assolutamente senza paragoni. L’aria era fredda, tipica di una giornata di fine dicembre, e grosse nuvole si alternavano in cielo, regalando contrasti e colori degni del miglior pittore. Raggiungemmo il ghiaione in breve tempo e altrettanto rapidamente perdemmo la traccia. Il bianco della neve unito al forte controluce non facilitava certo la salita. In mancanza di segni visibili né di direzioni certe, guardammo la cartina e decidemmo di seguire il sentiero che doveva per forza correre sotto qualche metro di neve.
Dannazione però: risalire il ghiaione in quel modo, avanzando sulla linea di massima pendenza, era un vero strazio. Non avevamo i ramponi e potevamo contare soltanto sulle punte ben solide dei nostri adorati scarponi. La neve era dura e in ombra: sorreggeva benissimo il nostro peso e quello degli zaini. Andai io per primo, lasciando una discreta distanza di sicurezza tra me e Francesca. Passo dopo passo, il ghiaione si appiattiva e una calda luce mi colpì il volto. Capii che ero arrivato. Poco dopo giunse anche la mia amica e decidemmo che una volta in cima avremmo consumato il nostro pranzo.
Ma si sa, in inverno la luce se ne va presto. Le nuvole grigie aumentarono tant’è che mentre scendevamo verso sud, iniziò pure a nevicare. Anche da questo versante le tracce non c’erano, ma qui le preoccupazioni non avevano alcun effetto su di noi: sapevamo dove bisognava andare perché la croce del Pelenzana si vedeva anche a occhio nudo, laggiù in fondo. Quindi, nonostante il tempo non proprio incoraggiante, ci incamminammo di buona lena, saltellando già tra neve, rocce ed eroici baranci.
Ma il vento aumentava, e con esso anche il grigiore del cielo. Decidemmo di cercare riparo presso il Bivacco Pelenzana, poco sotto la cima, ma posizionato in una conca al riparo dalle sferzate di aria gelida. Restammo lì per un tempo indefinito, forse mezzora o un’ora, e ormai avevo perso tutte le speranze di poter fotografare il tramonto da lì sopra.
Mentre mi perdevo in pensieri oscuri e mangiavo qualcosa per tirarmi su, alzai gli occhi e vidi un bagliore giallastro spuntare nel mezzo delle nuvole in direzione sudovest. Mancava poco al tramonto e forse quello era un segno che la luce stava per cambiare. Dissi a Francesca che ci volevo provare: desideravo risalire fino alla cima per vedere com’era la situazione dall’altra parte. Mi incamminai nuovamente su per il ripido pendio e, una volta in cima, capii che avevo fatto la scelta giusta.
In foto: al centro il Monte Agnello e a destra Cima Feudo e le propaggini sud del Latemar