Il sentiero che taglia il pendio a Sud-Ovest è soltanto una traccia, quasi invisibile dal percorso ufficiale, utilizzato dai pastori e dai malgari che, durante le estati, portano il bestiame sui prati di Prendera. Adoro percorrere questa traccia, poco conosciuta ed altrettanto poco frequentata. Disegna un mezzo anello attorno al monte, tracciando una linea quasi pianeggiante che corre un centinaio di metri sotto alla vetta. Il pendio è erboso, costellato di rocce e piccoli larici, l’ambiente ideale per i camosci. La vista che si ha da qui sembra essere la scena di un quadro ottocentesco. Sono felice di essere da solo, quassù, nella luce di un tardo pomeriggio d’estate. Sento che la montagna mi sta volendo bene, che mi sta accogliendo tra i suoi pendii e boschi. Anche se non li vedo, percepisco la presenza dei selvatici che mi scrutano dall’alto, da una delle rocce sotto alla cima. Cammino piano, perché ogni passo è speciale. C’è qualcosa nell’aria fresca, non so, ma una sensazione di benessere mi accompagna per tutto il tragitto. Terminato il tratto di sentiero sul pendio e aggirato il costone Nord, la traccia prosegue in falso piano infilandosi dritta in una piccola vallata erbosa. La percorro senza fretta. Credo che non siano molte le persone passate per di qua ultimamente. L’erba infatti non è calpestata e la traccia quasi non si distingue. Ad ogni passo si alza in volo una moltitudine di piccole farfalle bianche, inizialmente posate su fili d’erba, come fossero candidi petali. Esse accompagnano il mio cammino e sembra quasi di volare raso terra. Arrivato in prossimità di una piccola forcella senza nome, noto che la piccola pozza, anch’essa avvolta nell’anonimato, si è praticamente prosciugata. Nel contempo, inizia a piovere. Ma è quella pioggia leggera, fina, quella che quasi non fa rumore quando si posa sull’erba. Mangio una pesca, assaporando il silenzio che circonda questi luoghi, riflettendo sul fatto che proprio ora, in questo preciso istante, altre località sulle Dolomiti sono prese d’assalto da turisti irrispettosi, escursionisti maleducati e sedicenti fotografi ignoranti – nel senso letterale del termine.
Sono profondamente intristito da tutto ciò. Mentre fino a qualche tempo fa il sentimento che accompagnava queste riflessioni era di rabbia, di frustrazione e disappunto, ora invece prevale la tristezza, la rassegnazione, lo sconforto. E’ come se queste montagne fossero diventate una specie di parco giochi all’aperto, dove poter praticare qualsiasi attività che dia appagamento all’essere umano. Se ci fosse un parco a tema Dolomiti con le montagne e i boschi e i prati e i torrenti e i laghi di plastica a grandezza naturale, sono certo che si farebbero grandi affari e la sostanza non cambierebbe. Naturalmente, lo sfruttamento delle montagne ai fini turistici non è una novità ed esistono fior fior di associazioni che si battono per i diritti delle terre alte, per fare in modo che vi sia un turismo ecosostenibile e, soprattutto, più responsabile.
Non piove più e nell’aria c’è una leggera foschia che sale dai boschi sottostanti. In direzione dei Lastoi de Formin e della Croda da Lago si fa largo un ultimo raggio di luce che, come una lama, penetra dalla Forcella Giau e colpisce violentemente i prati di Mondeval de Sora. Il silenzio è rotto soltanto dal suono dell’otturatore e dal belare di pecore che pascolano a Mondeval de Sotto. Sento che in qualche modo la montagna mi sta ringraziando per la fiducia che le ho dato in questi mesi, che mi sta facendo un regalo per essere ancora qui, nonostante tutto, a ritrarla in fotografia. Sento che vuole mostrarmi quanto può essere unica e meravigliosa senza bisogno di trucchetti da quattro soldi. Spero che questo luogo possa rimanere solitario ancora per un po’. Ormai è quasi buio e in lontananza, dalle parti del Fertazza, infuria un temporale con lampi che illuminano il cielo. La montagna mi sta dicendo di andarmene, vuole essere lasciata in pace. Dopotutto, è lei a comandare, io sono soltanto un testimone degli eventi. Quasi fuggo da lassù, le chiedo ancora un po’ di tempo per poter arrivare all’auto senza essere colpito dai fulmini. Scendo in poco più di un’ora, meno della metà di quanto avevo impiegato all’andata, e arrivo al parcheggio impaurito, madido di sudore per la corsa e con forti crampi alle gambe. La montagna mi ha lasciato passare, per sta volta.
In foto: la spada di luce trafigge i pascoli di Mondeval de Sora.