Sono felice di essere stato sulle Isole Faroe quando erano ancora una meta lontana dal turismo “fotografico” di massa. Non sono passati nemmeno 4 anni eppure in questo lasso di tempo sembra che le Faroe siano diventate una seconda Islanda. Non li conto più i vari workshop, viaggi fotografici, viaggi avventure, che propongono i più svariati tour su queste isole che contano più pecore che abitanti.
All’epoca non incontrai alcun fotografo, nemmeno sugli “spot” più famosi (come ad esempio la celebre cascatella di Gasadalur, che mi guardai bene dal fotografare). Niente orde di fotoamatori messi in fila con i cavalletti per portare a casa tutti la stessa identica fotografia. Nessuno con un drone che disturbava la splendida atmosfera malinconica che permea tutto l’arcipelago. All’epoca c’era soltanto il volteggiare rumoroso dei fulmari, le beccacce di mare che te le trovavi a fissarti da sopra un masso a bordo strada, i chiurli che seguivano le barche nei tratti di mare tra le isole, le pulcinelle di mare che svolazzavano goffe sopra le alte scogliere di Eysturoy. Ma di fotografi con allievi al seguito manco l’ombra.
E così mi sembra che, forse, questa “sete” di immagini stia provocando una perdita di contatto con il luogo fotografato a favore di un approccio “punta e scatta”: vado alle Faroe con un tutor così mi porta nei posti scenografici e torno a casa contento con delle belle fotografie (peraltro uguali agli altri compagni di viaggio, dato che i cavalletti erano uno di fianco all’altro).
Non sono contrario a queste pratiche, le ho sperimentate in prima persona alcuni anni fa. Ma tanto mi è bastato per accorgermi che non voglio usare un luogo per collezionare immagini, ma utilizzare la fotografia per omaggiare un luogo.
In foto: al centro, l’aspra isola disabitata di Tindhólmur ripresa dalla costa dell’isola di Vagar, agosto 2014.